In Iran dovevamo declamare "morte a Israele", ma sognavamo la libertà - Israele.net - Israele.net

2022-09-10 01:34:52 By : Mr. Allen Cheng

Marjan Keypour Greennblatt, autrice di questo articolo

“Mi dica qualcosa che non so sull’Iran”. La domanda mi ha molto colpito visto che arrivava da Yair Lapid, il primo ministro ad interim d’Israele, mentre ci trovavamo nella piccola sala conferenze accanto al suo ufficio a Gerusalemme. Lapid è alla guida di un paese molto concentrato sulla Repubblica Islamica d’Iran. E per ottime ragioni.

Da più di quattro decenni Israele deve fare i conti con un acerrimo nemico, ferocemente votato all’annientamento dello stato ebraico. Molto prima di rovesciare lo Scià, Rouhollah Khomeini codificò la distruzione di Israele come un elemento essenziale del suo credo rivoluzionario. Oggi, quella spietata ostilità è stata istituzionalizzata praticamente a ogni livello della politica iraniana: dottrina militare, affari religiosi, politica energetica, affari esteri, istruzione, persino nell’intrattenimento. Proprio come l’antisemitismo classico che nel corso della storia ha accusato il popolo ebraico di ogni possibile nefandezza, il regime iraniano dipinge lo stato ebraico come l’immancabile capro espiatorio per tutti i mali del mondo. Questo odio in continuo fermento è più di una minaccia esistenziale per Israele: è un elemento vitale della logica che sta alla base della Repubblica Islamica; è ciò che puntella una dirigenza corrotta e incapace, che da molto tempo ha perso ogni traccia di legittimità.

Ma sicuramente Lapid sapeva già tutto questo. In quanto attivista per i diritti umani e osservatrice dell’Iran, conoscevo le notizie che giungono regolarmente circa le temerarie imprese che i servizi di intelligence israeliani riescono a compiere nel cuore del paese degli ayatollah. Mi trovavo in quella stanza come parte di una delegazione della Anti-Defamation League guidata da mio marito Jonathan Greenblatt, ed ero ospite su invito dell’ufficio del primo ministro. Mentre cercavo di elaborare la mia risposta, sulle prime ho pensato che non ci fossero molte informazioni che potessi offrire al primo ministro, incuriosito dalle mie origini iraniane. E tuttavia, sapevo di avere una profonda convinzione che volevo condividere e non volevo perdere l’occasione speciale di rispondere a quella importante domanda.

L’incontro fra la delegazine dell’Anti-Defamation League e il primo ministro israeliano Yair Lapid

“Signor primo ministro – ho iniziato – lei deve sapere che il popolo iraniano non condivide l’odio nei confronti di Israele imposto dal regime”. Il suo sguardo si è acceso. Ho sentito scricchiolare la pelle delle sedie mentre i suoi consiglieri si sporgevano in avanti e concentravano l’attenzione sull’angolo del tavolo dove ero seduta. Quindi ho continuato. “La gente sa che l’origine delle sue sofferenze non è lo stato di Israele, bensì il regime repressivo che cerca di controllare e dominare praticamente ogni aspetto della vita. In realtà, la gente comune ammira Israele. Alcuni addirittura amano lo stato ebraico”. Ho proseguito spiegando questo punto di vista, basato sui miei anni di impegno con i dissidenti e sulle mie esperienze personali vissute in Iran.

Come bambina cresciuta nella Teheran post-rivoluzione, iniziavo ogni giornata scolastica stando fuori in fila con le altre ragazze. Dopo la caduta dello Scià, la scuola era diventata un ambiente tipo apartheid, con gli studenti rigorosamente separati per genere e un codice di abbigliamento islamico imposto a tutte le ragazze indipendentemente dalla loro religione. Anche se ebrea, ogni giorno dovevo assicurarmi che il mio hijab fosse strettamente fissato intorno al mento per nascondere anche solo un accenno di capelli, nel rispetto delle regole di modestia imposte dai chierici che miravano a controllare tutti gli aspetti della nostra vita. Prima di sederci nei banchi eravamo costretti a stringere il pugno e declamare in coro: “Morte a Israele!”. Che ciò avesse la precedenza su grammatica e matematica era una chiara indicazione delle priorità del sistema educativo iraniano. Durante l’adolescenza, l’anti-sionismo veniva impresso nella nostra mente come un chiodo fisso ogni singolo giorno di scuola. Non ho mai creduto a quella propaganda, e non solo perché vengo da una famiglia ebrea. La maggior parte di noi non ci credeva, perché non erano parole nostre. Ma abbiamo sperimentato in prima persona una sorta di lavaggio del cervello collettivo, mentre l’odio veniva inculcato nella nostra testa. Ogni singolo giorno. Eppure la maggior parte di noi non avrebbe saputo nemmeno trovare Israele su una carta geografica; non sapevamo nulla del conflitto arabo-israeliano e non riuscivamo a capire come quel luogo lontano fosse collegato con la nostra vita.

Febbraio 2020: bandiere di Stati Uniti e Israele incollate sul marciapiede di via Enqelab-e-Eslami (Rivoluzione Islamica) nel centro di Teheran, ma i passanti perlopiù evitano tacitamente di calpestarle

Perché infatti non lo era. In effetti eravamo preoccupati per problemi molto più impellenti, come schivare i bombardamenti notturni dell’aviazione irachena durante la guerra [1980-1988], o fare i conti con il razionamento alimentare e la generale scarsità di cibo, per non parlare di poter scegliere i nostri abiti o trovare il modo di ascoltare la musica che all’improvviso era stata bandita. Benché indubbiamente la propaganda anti-israeliana filtrasse nella mente di parecchi giovani a causa della martellante ripetizione, essa per lo più cadeva nel vuoto. La ignoravamo perché, mentre la guerra aveva invaso le nostre vite e la povertà si era diffusa, Israele era letteralmente tra le cose più lontane possibile dai nostri pensieri.

Questo tacito scetticismo è venuto in superficie negli ultimi anni grazie soprattutto ai social network. Attivisti anonimi hanno utilizzato le piattaforme per respingere la propaganda con crescente successo. Ad esempio, #NoHateDay [No Giornata dell’Odio] è diventato un dinamico movimento di base sui social network che lancia una raffica di messaggi positivi pensati per contrastare il logoro rituale della “Giornata Quds” [Giornata di Gerusalemme], un evento artificiale creato dal regime per attaccare lo stato ebraico. Emergono in continuazione nuove campagne come #StandsWithIsrael [A fianco di Israele] e #IraniansLoveIsrael [Iraniani amano Israele], iniziative che esprimono amicizia e tolleranza. Gli attivisti hanno ideato grafiche creative e banner a sostegno dello stato ebraico e hanno riempito i social network di messaggi di amicizia e pace tra i due popoli.

Negli ultimi quarant’anni gli iraniani hanno assistito al fallimento della Rivoluzione Islamica e alla sua incapacità di mantenere le fondamentali promesse di pace e prosperità per la maggioranza della popolazione. Sebbene il regime controlli spietatamente i mass-media e li usi per alimentare la narrativa che vuole, gli iraniani non ci cascano. In tutto il paese le persone ricorrono a VPN [reti private virtuali], media satellitari e altri servizi per aggirare la censura e accedere a notizie su cui possono davvero fare affidamento. Ad esempio, da decenni stuoli di persone si sintonizzano per ascoltare le trasmissioni quotidiane di Menashe Amir, un conduttore di lunga data su Israel Radio International, così come altri su Israel Pars TV [in lingua persiana]. Mentre il regime si sforza di demonizzare gli israeliani, gli iraniani comuni sanno che i resoconti e le analisi di Amir su Israele sono molto più informativi di quelli dei conduttori di Teheran approvati dallo stato. I resoconti in lingua persiana e quelli di altri organi di informazione della diaspora [iraniana] come Iran International, ManotoTV e VOA Persian forniscono agli ascoltatori una prospettiva ben più accurata e articolata sulle questioni mondiali e sulle politiche che hanno un impatto sulla loro vita.

Il messaggio “Io sto con Israele” postato da un cittadino iraniano durante la guerra anti-Hamas a Gaza dell’estate 2014

Mentre i chierici attaccano quello che chiamano il regime sionista, in realtà il popolo iraniano apprezza i tanti gesti spontanei di buona volontà arrivati da Israele nel corso degli anni, che vanno dal livello simbolico come i messaggi di auguri per la festa di Nowruz [capodanno laico persiano], a quello sostanziale come le offerte di aiuto umanitario dopo i terremoti e l’offerta in dono di vaccini quando il covid imperversava nel paese. Mentre Teheran rifiutava in modo automatico queste offerte, la popolazione iraniana sapeva di essere la vera vittima di quei rifiuti. Più e più volte, il pubblico ha visto umiliare i suoi campioni sportivi, costretti a buttare via anni di allenamento e rinunciare agli incontri semplicemente per non competere con atleti israeliani. Sono atti che feriscono nel profondo il senso di orgoglio degli iraniani comuni e sottolineano sempre più quanto l’atteggiamento ufficiale del regime nei confronti di Israele non faccia che danneggiarli.

Col tempo povertà e disoccupazione sono aumentate, le risorse naturali dilapidate e il patriottismo è andato declinando. Nel frattempo, grazie ai social network e alle notizie in arrivo dalla diaspora, gli iraniani diventano sempre più consapevoli della pessima gestione del paese da parte del regime. Vedono come le loro opportunità non fanno che diminuire, mentre crescono le opportunità per i terroristi palestinesi le cui famiglie vengono premiate dal regime quando uccidono civili israeliani; per i bambini-soldato costretti a combattere in Libano, Siria e Yemen le cui armi e il cui addestramento sono finanziati dal regime; per i trafficanti di droga in Sud America pagati dal regime. La popolazione iraniana vede i suoi capi che esprimono compassione per le minoranze emarginate in tutto il mondo, ma trascurano il dolore e disdegnano la sofferenza della loro stessa popolazione, di ogni estrazione etnica e religiosa.

“Signor primo ministro – ho concluso – la popolazione iraniana sa che la causa della sua miseria non è il lontano stato d’Israele: è il dispotico regime iraniano, che dà la priorità alle sue ambizioni distruttive contro Israele rispetto al benessere dei propri civili”.

Lo scambio è durato solo pochi minuti, ma ho provato grande conforto nel trasmettere questo messaggio a nome dei miei compatrioti. Il primo ministro Lapid ha ascoltato con cortesia e attenzione, ha manifestato la sua amicizia verso il popolo iraniano e a poi chiuso lo scambio esprimendo la speranza che possa infine liberarsi dall’oppressione, una speranza che non possono non sostenere tutte le persone che amano la libertà.

Quel totale disastro chiamato Unrwa: la storia di Malik

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Il municipio di Tel Aviv illuminato giovedì sera con i colori della bandiera del Regno Unito per commemorare la regina Elisabetta II (clicca per ingrandire)

Attentato sventato in tempo, giovedì, con l’arresto a Giaffa di un palestinese di Nablus armato di mitra carico e ordigni esplosivi. Ha detto che intendeva compiere un attentato in un luogo affollato di Tel Aviv. Lo scorso maggio, l’uomo era già stato fermato dopo essere stato sorpreso munito coltello sul Monte del Tempio di Gerusalemme.

Nelle prime ore di giovedì mattina a nord di Gerusalemme un soldato israeliano, colpito al volto con un martello da un palestinese armato anche di coltello, ha reagito sparando due colpi che hanno ucciso l’aggressore. Nel frattempo, sempre giovedì mattina, le forze di sicurezza israeliane hanno arrestato a Jenin quattro palestinesi accusati di coinvolgimento nell’attentato terroristico di domenica a un autobus nella Valle del Giordano. Durante l’arresto, palestinesi armati hanno lanciato esplosivi verso le truppe. Un soldato ferito da schegge è stato ricoverato all’Emek Medical Center di Afula. Secondo dati diffusi giovedì dai servizi di sicurezza israeliani, nel mese di agosto vi sono stati 172 attacchi terroristici contro obiettivi israeliani, di cui 23 con armi da fuoco. A luglio erano stati 113, di cui 15 con armi da fuoco. Il lancio di ordigni incendiari è passato dai 75 di luglio ai 135 di agosto.

Israele ha seccamente respinto, mercoledì, le pressioni statunitensi per una revisione delle regole di ingaggio delle Forze di Difesa israeliane. “Nessuno ci detterà le regole di ingaggio quando stiamo combattendo per la nostra vita – ha detto il primo ministro Yair Lapid – Sento appelli perché vengano incriminati dei soldati a seguito dell’uccisione della giornalista Akleh. Non permetterò il perseguimento di alcun soldato che si stava difendendo dal fuoco intenso di terroristi armati, solo per ricevere qualche plauso dall’estero. Le Forze di Difesa israeliane non sparano mai intenzionalmente a persone innocenti. Siamo profondamente impegnati per la libertà di stampa e con regole di ingaggio fra le più rigorose al mondo, ma sia chiaro: i nostri soldati impegnati nella difesa del paese a rischio della loro vita hanno il pieno appoggio del governo e del popolo d’Israele. E l’unico che decide le regole di ingaggio, in base alle esigenze operative e ai valori delle Forze di Difesa israeliane, è il capo di stato maggiore”. Poco prima, anche il ministro della difesa Benny Gantz aveva ribadito che “solo il capo di stato maggiore è responsabile delle regole di ingaggio e non ci possono essere interferenze politiche nelle sue decisioni”. Anche il vice primo ministro Naftali Bennett ha respinto le affermazioni americane, sottolineando che “in ogni dato momento ci sono terroristi palestinesi che cercano di uccidere israeliani. Non il contrario. Non premiamo mai alla leggera il grilletto, ma l’imperativo morale è colpire i terroristi e salvare vite umane”. Martedì, accogliendo le conclusioni dell’inchiesta israeliana sulla morte della giornalista di al-Jazeera, il funzionario del Dipartimento di stato americano Vedant Patel aveva detto che gli Usa “continueranno a fare pressioni su Israele direttamente e ad alto livello” affinché riveda le sue regole d’ingaggio.

In un rapporto citato mercoledì dalla AFP, la AIEA (organismo di vigilanza nucleare delle Nazioni Unite) afferma che non può garantire la natura pacifica del programma nucleare iraniano, spiegando che non vi è stato “alcun progresso” nella risoluzione delle questioni sulla presenza in passato di materiale nucleare in siti non dichiarati.

Nel quadro di una vasta operazione contro il traffico di armi illegali, terroristico e da criminalità comune, le Forze di Difesa israeliane sono entrate all’alba di mercoledì nel campo palestinese di al-Far’a, a sud di Tubas (Cisgiordania settentrionale), per arrestare alcuni trafficanti. Bersagliati da colpi di arma da fuoco e lanci di esplosivi palestinesi, i militari hanno risposto al fuoco colpendo un palestinese (deceduto dopo il trasporto in ospedale), che aveva lanciato un ordigno. Arrestato uno dei ricercati.

Parlando davanti a un caccia F-35 durante una visita, martedì, alla base aerea di Nevatim, nel sud di Israele, il primo ministro israeliano Yair Lapid ha lanciato un secco avvertimento all’Iran: “Non metterci alla prova. Se l’Iran continuerà a metterci alla prova – ha detto Lapid – scoprirà il lungo braccio e le capacità di Israele. Continueremo ad agire su tutti i fronti contro il terrorismo e contro coloro che cercano di farci del male. Come concordato tra me e il presidente Joe Biden, Israele ha piena libertà di agire come riteniamo opportuno per prevenire che l’Iran diventi una minaccia nucleare”.

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