Generali, Mediobanca, Anima (e Mps): la nuova mappa del risparmio tra fusioni e matrimoni- Corriere.it

2022-10-15 05:43:23 By : Ms. Phoebe Pang

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Cinque trilioni. Gli italiani non sono abituati a ragionare con questi ordini di grandezza nonostante il debito pubblico il trilione lo abbia superato da un pezzo e si avvicini ai tre . Ma, per fortuna, possiamo ancora dire che la ricchezza finanziaria degli italiani, al netto delle passività, è quasi due volte il loro debito pubblico. Grosso modo cinquemila miliardi. Nei giorni scorsi, l’Istat ha aggiornato i dati sulla propensione al risparmio che, alla fine del primo semestre di quest’anno, è stata del 9,3 per cento. In calo sensibile (4 punti e mezzo in meno in un anno) ma sempre superiore al periodo pre pandemia. Per non consumare troppo di meno si risparmia un po’ di meno.

L’inflazione erode il valore reale dei patrimoni, ma gran parte dei cittadini — soprattutto quelli che non hanno convissuto in passato con la rincorsa tra costi e prezzi — non sempre ne ha una piena consapevolezza. Non coglie la velocità con cui morde il tasso composto . Una ricerca scientifica ha calcolato (come avranno mai fatto?) che sulla Terra ci sono 20 mila trilioni di formiche. Se fosse possibile dividerle per nazionalità le nostre sarebbero le più operose e previdenti. Siamo grandi risparmiatori ma non eccellenti investitori, soprattutto nel medio e lungo periodo. E, ulteriore paradosso, l’importanza del nostro risparmio è più valutata e concupita, non senza istinti predatori, dai grandi gestori internazionali che dai nostri operatori nazionali, non esenti da colpe. O meglio: i primi si sono svegliati per tempo con strategie aggressive; i secondi sono stati, salvo rare eccezioni, affetti da provincialismo, condizionati da necessità immediate e da calcoli di breve periodo.

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Perché se così non fosse Unicredit — ai tempi di Jean-Pierre Mustier — non avrebbe ceduto Pioneer alla francese Amundi, ovvero al Crédit Agricole. Un’operazione che Oltralpe, a parti invertite, non sarebbe mai passata. A maggior ragione se l’avesse fatta un italiano. Forse nemmeno a Bruxelles. All’epoca, nel 2016, nessun protagonista nazionale fu in grado di offrire più dei francesi, forti delle economie di scala. L’allora governo Renzi spinse, ma senza successo, i connazionali a provarci, in particolare Poste, allora dirette da Francesco Caio. Chi è piccolo può osare di meno. E la tenuta dei conti è inevitabilmente al vaglio degli azionisti. E degli stessi asset manager che ne decidono le quotazioni di Borsa penalizzandole se il passo dei nuovi investimenti è più lungo della gamba. Le banche e le assicurazioni italiane realizzano parte cospicua dei loro utili grazie alle commissioni del risparmio gestito. In queste ultime settimane è tutto un agitarsi per vincere la sfida delle dimensioni.

Generali guarda all’asset management americano (Guggenheim Partners o alla più piccola BrightSphere), non solo per ragioni di massa gestita e diversificazione dei mercati ma anche e soprattutto per le competenze, la qualità delle analisi, la capacità di fabbricazione dei prodotti. Un po’ come fece Unicredit ai tempi di Alessandro Profumo e Pietro Modiano quando comprò Pioneer, il più vecchio fondo di gestione americana del risparmio. Anche con l’obiettivo di vendere prodotti al di fuori della propria rete di sportelli, vizio e limite della storia italiana del settore.

Torna d’attualità l’ipotesi che Trieste possa cedere Banca Generali a Mediobanca, aumentando il volume di fuoco nel risparmio gestito dell’istituto milanese (che però è di soli 80 miliardi contro i 530 di Intesa e i 489 del Gruppo Generali). Eventualità avversata dai soci Caltagirone e Del Vecchio e all’origine della fratricida sfida della scorsa primavera che li opponeva a piazzetta Cuccia, socio di maggioranza relativa del Leone. Il sofferto e non scontato aumento di capitale da 2,5 miliardi del Monte dei Paschi è un passaggio essenziale. Non solo per i destini della banca senese. Coinvolge, non senza difficoltà e resistenze, i soci commerciali — Axa, altro gigante francese delle assicurazioni e dell’asset management — e Anima, di cui Banco Bpm ha il 20 per cento e Poste l’11. La formazione di altri poli bancari influirà sull’inevitabile processo di aggregazione anche dei protagonisti del risparmio gestito che hanno negli istituti di credito i loro canali di distribuzione. Bper ha appena integrato Carige. Crédit Agricole ha il 9,2 per cento di Banco Bpm dopo aver conquistato il Credito Valtellinese e diverse casse minori.

Attraverso i fondi, Amundi è arrivata anche ad avere più del 5 per cento di Anima. In una intervista al Messaggero, l’amministratore di Crédit Agricole Italia, Giampiero Maioli, ha escluso qualsiasi volontà di scalata alla Bpm. E ha respinto l’insinuazione di Guido Crosetto (Fratelli d’Italia) preoccupato da una ulteriore crescita francese nelle banche e, soprattutto, nel risparmio gestito , per il quale l’uso del golden power non è previsto. Circolano tante ipotesi di future aggregazioni, transnazionali e non. Anima e Arca potrebbero trovare una strada di convergenza comune. Il modello di quest’ultima (controllata da Bper e altre popolari azioniste, in particolare la Sondrio) non è dissimile da quello del mondo del credito cooperativo con Iccrea e la trentina Cassa Centrale Banche. Negli ultimi vent’anni, nella patria delle formiche del risparmio, gli operatori nazionali hanno preferito - qualche volta essendone costretti - concentrarsi sulla distribuzione rinunciando via via alla sfida della fabbrica, considerata persino una commodity.

Forse perché la prima vale due terzi delle commissioni e la seconda solo un terzo. Non sono mancate però le eccezioni. La principale è quella di Eurizon di Intesa Sanpaolo che però è molto concentrata in Italia. La fabbrica è rimasta, dunque, prerogativa dei grandi player internazionali: Blackrock, Fidelity, Vanguard. Qui la dimensione, la capacità di ricerca, l’attrazione di talenti fanno la differenza. Una leva operativa formidabile. E non basta vestirsi da fabbricanti, con sede per ragioni fiscali in Lussemburgo o Irlanda, per imitarne le potenzialità. In realtà molte fabbriche italiane, con la tecnica del white labeling, impacchettano prodotti di altri. Chi è più grande affronta meglio la sfida dei prezzi e può offrire condizioni migliori.

Le gestioni attive soffrono. La clientela dei fondi obbligazionari — che sono sotto mediamente del 15/16 per cento — paga commissioni medie del 2 per cento. Proprio ora che ritorna la convenienza, visti i rendimenti crescenti, sui titoli governativi. Gli italiani non hanno mai posseduto una quota così piccola (circa il 4 per cento) di bond . Cinque volte meno del periodo precedente l’ultima crisi finanziaria. La concorrenza delle gestioni passive (basata sull’impiego degli Etf , da vent’anni sul mercato italiano), che applicano commissioni decisamente più basse. si fa sentire. Nelle reti distributive spesso si richiedono ancora, nonostante tutto, delle commissioni d’ingresso. Al di là di un riassetto, in chiave di una difesa del risparmio gestito italiano, forse uno sguardo ai costi della clientela non sarebbe inopportuno nel Paese in cui si continua a risparmiare tanto salvo poi distrarsi sulla bontà degli investimenti. Le formiche, nel loro piccolo, non sempre sono così pazienti

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di Massimiliano Jattoni Dall’Asén

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